Nel monastero delle Oblate di Tor de' Specchi i diavoli, maligni e caprini, tormentano
Francesca Romana. Gli assalti demoniaci sono affrescati in monocromia, mentre gli altri quadri che narrano la vita e i miracoli della santa sono coloratissimi. Soltanto le dannate visioni galleggiano sui toni del verde azzurrino e sembrano quasi essere generate da arcaici tubi catodici.
L'esperienza visionaria, per essere percepita nella sua alterità, deve passare attraverso una macchina di distorsione che la racconti. Il pennello dell'artista ha trovato un espediente assai efficace, ha fatto risucchiare i colori da un magma grigiastro. Inconsapevolmente è stato anticipato l'effetto di un vecchio schermo tv dove spicca senza equivoco il carattere allucinatorio o soprannaturale dei tormenti della mistica, rispetto alla sua vita pubblica rappresentata senza filtri e a colori. Reale e visionario, per essere raccontati con lo stesso strumento espressivo, debbono quindi avere spessori raffigurativi differenti.
Nel linguaggio dei fumetti, il balloon che racchiude un pensiero è graficamente tratteggiato in maniera differente rispetto a quello che contiene i dialoghi. Laddove infatti la comunicazione attiene al reale il contorno della cornice è più netto. La linea continua dell'ovale o del rettangolo delimitano le parole che i sensi possono oggettivamente percepire. La linea serpeggiante o tratteggiata della nuvoletta contiene invece il pensiero di un soggetto che gli altri possono soltantoimmaginare. Anche in questo caso attraverso codici differenti si cerca di rendere visibile il confine tra certo e incerto, tra verificabile e ipotetico.
Della vita e delle opere della santa patrona di Roma sono stati testimoni i suoi contemporanei; per vedere le sue battaglie con i diavoli occorre uno sforzo, un atto di fede. Attraverso le moderne macchine di visione, come il computer e il televisore, tale discriminazione tra reale e irreale (anche se possibile), sembra gradualmente perdere significato, si assiste a una graduale perdita del senso della realtà, o meglio alla distorsione della medesima. Alla naturale ricerca della verità tra le caligini fuorvianti del verosimile, si è sostituita la lussuria per il falso, l'artificiale o meglio il posticcio.
La cultura del «taroccato» rende possibile l'omologazione del gusto e dei beni di consumo voluttuari, quindi di conseguenza guenza sogni e visioni standard, uguali per tutti. L'originale vale per la sua unicità, la riproduzione in copie di minor valore moltiplica e inflaziona le categorie del bello, del raro, del ricercato, ma pure del trasgressivo e dell'orrido. Grande democrazia, ma fuga inarrestabile verso il culto della «patacca» persino nei nostri peggiori incubi; non a caso per ansie, depressioni, esaltazioni e paure c'è un'offerta massiccia di soluzioni chimiche (vedi Prozac, Viagra, ecc.) che presuppongono l'impossibilità di derive personali dalla norma. Nemmeno il piccolo lusso di essere tormentati da un demone a nostra misura come Francesca Romana: la legione è stata arruolata in massa dalla psicofarmacopea.
Se può capitare a chiunque di cedere di fronte a una falsa borsa firmata esposta in metropolitana, siamo parimenti tentati fortemente dall'esperienza del virtuale che si offre a ben più basso prezzo di quella umana di cui è una triste emulazione. Tutto sommato già nel vivere comune si è consolidata una consuetudine alla visione elettronica e al suo elevato tasso di simulazione. La familiarità diffusa con il personal computer, quale strumento di lavoro e di evasione allo stesso tempo, ha rafforzato l'idea di una corrispondenza tra i procedimenti di formazione del pensiero umano e quelli di una memoria artificiale.
Per l'uomo la memoria è sempre meno considerata un patrimonio perseguibile attraverso uno sforzo di apprendimento, di mediazione, elaborazione e conquista, ma piuttosto download velocissimo, riversamento automatico da una memoria comune a cui tutti possono accedere. L'importante è una parvenza di vissuto, un'apparenza appunto. Un vissuto fatto in serie, prevedibile e reiterato come un videogioco.
L'accezione attraverso la quale il termine virtuale ha iniziato la sua implacabile corrosione da abuso è quella che lo contrappone drasticamente al concetto di «virtuoso». Il mondo virtuale èl'universo dei sogni irrealizzabili, delle abnormità fascinose, della trasgressione più estrema, quindi è maggiormente carico di attese che di effettive uscite dal mondo. La virtù si pratica nelle azioni naturalmente condizionate dalle circostanze della realtà. Il virtuale è l'esercizio dell'attitudine alla distorsione del reale. Quindi il pulcino videogioco che minaccia la psiche dei bambini diventa «virtuale» quando è solo icona elettronica; le relazioni telematiche diventano sesso virtuale; l'appassionato di giochi elettronici come Doom o Mortal Kombat esprimerebbe nel virtuale la propria natura violenta e omicida.
In realtà sarebbe più esatto dire che si tratta di distorsioni di minor consistenza rispetto all'esperienza del reale. Emulazioni in pixel, in bit, in fotogrammi, in siliconi o in qualsiasi altro supporto sintetico tangibile o impalpabile. Una maniera, in fondo rozza, di dar materia ai nostri pensieri o allucinazioni, ma purtroppo senza arte né poesia.
L'attitudine a prediligere la riproduzione rispetto alla realtà porta paradossalmente pure a delle modificazioni all'istinto «alla riproduzione», che l'essere umano ha nel proprio patrimonio genetico, quando questo viene sopraffatto dall'anelito alla distorsione. L'uomo moderno (aggiungeremo occidentale) non mira più di tanto a costruirsi una speranza di sopravvivenza riproducendosi (vedi crescita zero), ma piuttosto distorcendosi. Tale atteggiamento deriva dall'istinto primario di conservazione che tracima intatto nella direzione di una memoria elettronica: unico e vero aldilà in cui si fondono tutte le speranze di eternità dell'era post-teologica e quindi tecno-metafisica.
Da tempo l'umanità più evoluta ha una sorta di assuefazione acquisita ad accedere senza stupore di sorta al paradiso della realtà virtuale. Si tratta soltanto di intendersi sul significato che vogliamo attribuire a tale definizione. Esiste una sproporzionata ipervalutazione dell'esperienza di virtual reality (VR) intesa come immersione sensoriale in raffigurazioni generate da un computer. Questi universi nella vulgata giornalistica divengono sovrapponibili per qualità d'esperienza alla vita reale; si considera relativamente il fatto che senza le ínterfacce più sofisticate in fondo la VR altro non è che un filmetto nemmeno troppo coinvolgente. Dato per certo che al momento, realisticamente, la sinestesia artificialmente ricostruita non è certo un'esperienza alla portata di tutti, resta il grande fascino illusorio che la parola virtuale esercita nei mezzi di comunicazione di massa. È definita virtuale ogni attività di ricerca, incontro, elaborazione che si possa effettuare in rete. Il coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore, il senso di realtà che automaticamente si attribuisce all'irreale teatro della televisione è invece di gran lunga più sintomatico dell'esperienza virtuale di una qualsiasi navigazione in Web o di un incontro in una chat testuale.
Singolarmente una semplice fotografia, solo perché inserita graficamente in un browser di navigazione, diventa paradossalmente «virtuale» all'interno di un notiziario televisivo, senza riflettere sul fatto che, allo stato attuale delle cose rispetto a quella povera foto immobile ha maggior carattere di virtualità lo studio del telegiornale e colui che la propone e commenta. In realtà i personaggi televisivi stessi non «sono», ma piuttosto «appaiono»; non è infatti possibile valutare chi abita il mondo delle ombre della televisione, con una scala oggettivamente riconosciuta di qualità proprie dell'umano. L: estrema distorsione televisiva fa sì che i sentimenti e le doti intellettive possano essere simulati e rappresentati, anche con maggior realismo e verosimiglianza del reale. Le stesse caratteristiche fisiche sono ancor più soggette alla distorsione dei tradizionali canoni estetici: la tv ingrassa, quindi occorre mirare all'anoressia umana per la gradevolezza catodica. La tv appiattisce, drammatizza, attenua, esalta, invecchia o ringiovanisce. Rende bello il brutto e viceversa... tutto comunque secondo un suo autonomo e imprevedibile codice di distorsione.
Vale la pena di riaffermare che al livello più elementare di questo cammino pseudo-iniziatico verso la trasmutazione virtuale, nella maggior parte dei casi si colloca lo spettacolo economico della televisione. Nell'epoca della tv primordiale le scenografie da recita all'oratorio e la fissità delle inquadrature davano l'impressione di un addomesticato teatrino delle marionette, macchina di visione e, se vogliamo, di dichiarata virtualità (anche se negli anni Cinquanta tale termine era usato con altri significati) come lo erano già state le ombre cinesi, gli ordigni del teatro barocco, i primi effetti cinematografici.
La consapevolezza di essere soltanto spettatori di una rappresentazione della realtà inizia a essere messa in precario equilibrio quando, in una fase successiva, la televisione ha iniziato a spacciarsi per visione «ravvicinata» della realtà, creando il grande equivoco che il reale potesse albergare nello stesso luogo della sua distorsione. Tanto più lo spettacolo televisivo illude di attingere al veritiero, tanto più propina ricostruzioni artificiali del reale e, nella simulazione, appaga la brama di distorsione dell'umanità teledípendente.
I più avranno quindi pensato che se la televisione diventava un luogo frequentato dal reale anche gli abitanti del reale avrebbero potuto rappresentarsi in televisione. Non occorreva più essere attori, giocolieri o fini dicitori, cantanti o musicisti: in tv potevano entrare anche figure familiari come le mogli e i mariti, i litiganti, i depressi, i perdenti, i figli, le nonne e via dicendo. Questa illusione di potersi realmente rappresentare nel proprio quotidiano ha animato la speranza, per una fetta grandissima di spettatori/protagonisti, che la realtà, nel mondo della distorsione totale, potesse subire modificazioni a loro proficue.
Il gioco è fatto, i diavolacci di Tor de' Specchi, stanchi di tormentare l'impassibile santa, hanno capito che era per loro possibile elaborare tentazioni a colori, per i più esigenti anche in 3D, ma soprattutto convincere i loro clienti con molta meno fatica e sicuramente più soddisfazione.
Gianluca Nicoletti IL TEMPIO DELLA DISTORSIONE sta in: AA.VV., La Realtà Del Virtuale, Laterza, Bari 1998 (ISBN 8842055867)