Segni premonitori, virtù, talenti e predestinazioni sono da sempre state le circostanze necessarie perché un umano potesse vivere un’ esperienza di uscita dal mondo. Oggi chiunque può farlo, a tutti è concessa la vertigine del volo siderale, del teletrasporto, di plasmare a piacimento il proprio corpo, la propria apparenza e la materia che costituisce il mondo concreto.
L’ esperienza della discesa nelle isole di Second Life è assolutamente combaciante con quella descritta da mistici e negromanti, ma a compiere il sortilegio non sono formule sapienziali o cabalistiche, ma sequenze di numeri e lettere che costituiscono la scrittura del codice informatico. Il sacro testo scritto da ingegneri che crea ogni particolare di quel mondo simulato e permette agli uomini di interagire tra di loro in quella particolare virtualità tridimensionale on line.
E’ divertente osservare quanto alla fine il web si sia trasformato nelle sue più recenti evoluzioni in uno strumento che tenda all’ irrazionale e al fantastico. Pensare che la massima ipoteca sul web è sempre stata quella di chi ne temeva l’ aspetto disumanizzante. In fondo erano le macchine e le fredde leggi dell’ informatica che doveva razionalizzare le relazioni tra gli umani accorciando distanze e tempi, ma soprattutto tarpando l’ umanità di chiunque affidasse loro la propria possibilità si comunicare con i suoi simili.
L’ uso della macchina come amplificatore di irrazionale non è nuova, oggi il mass mediologo è esperto di sogni collettivi generati da macchine, ma già Le sorelle Fox ebbero dai loro fantasmi la profezia che nel secolo ventunesimo si sarebbe celebrata la gloria del medium. Era il 1848 quando le tre americane Kate e Margaret e Leah iniziarono a sondare il mondo delle presenze spiritiche, da allora trovarono emuli in tutto il mondo, ma la medianità non oltrepassò mai i confini della cultura ufficiale. L’ interesse generale si sposterà invece verso macchine capaci di simili sortilegi. Congegni capaci di immagazzinare, registrare, riprodurre, trasferire la realtà. Prima in suoni e voci, poi anche attraverso immagini. Ci fu così l’ apoteosi dei medium artificiali, dal fonografo alla televisione. Il “medium” televisivo va solo in apparenza inteso con una diversa accezione del termine. E’ molto più di un mezzo per informare e intrattenere. Oggi come allora è veicolo di segnali e presagi.
La televisione è diventata il supporto più usato per evocare visioni collettive, ma piuttosto che il suo immenso potenziale fascinatorio se ne è voluta accentuare la possibilità di diffondere consenso, per questo alle nostre latitudini la politica l’ ha fatta sua, millantando che ciò avveniva in nome del pluralismo e della democrazia. Ora che la tv sta mostrando i segni inequivocabili della sua senescenza, attraverso lo stesso fraintendimento di base nel dibattito politico italiano sempre più spesso emerge il concetto per cui Internet sarebbe il vero veicolo della democrazia.
Molti ci credono, anche perché è una bella liberazione pensare che da qualche parte esista, completa e organizzata, la macchina perfetta perché ognuno si senta rappresentato e in grado di esprimere il proprio dissenso.
In realtà Internet è uno strumento formidabile per accorciare tempi e distanze nel trasporto di pensieri tradotti in bit, ma è tutt’ altro che un universo democratico.
Cass Sunstein, professore di diritto all’Università di Chicago, ha studiato il fenomeno della circolazione delle idee attraverso community web ed è arrivato alla conclusione che in internet più si discute di un determinato argomento, più ci si radicalizza nel punto di vista che si aveva prima di entrare. In sintesi, dalla sua osservazione si deduce che in rete si va per rendere ancor più ferree le proprie certezze, non certo per contaminarsi con pareri opposti. L’ animosità dei grillanti nel difendere a oltranza il proprio rappresentante è sintomatica, in realtà la loro certezza si rafforza con il crescere delle adesioni alla crociata web, ma mai vorrebbe scendere a patti con chi non condivida la mistica assolutista del ”la rete è con noi!”
Nel suo saggio “Republic.com” Sunstein arriva a sostenere che alla fine sia il caso di rivalutare i media tradizionali , che chiama "intermediari di interesse generale", perché almeno riescono a porre argomenti che non sempre soddisfino pienamente le convinzioni di chi ne fruisca. Chiaro che tutto ciò risulterebbe una bestemmia al credo cyberfanculista, ma è difficile mettere in dubbio il concetto per cui chi usa internet sia giovane libero e democratico, chi non ne faccia una religione invece appartenga a un medioevo evolutivo rispetto ai valori di giustizia libertà e democrazia.
La rete è democratica solo nell’ apparenza, ma soprattutto perché può attribuire facilmente e gratuitamente certificati di cittadinanza. E’ difficile parlare di democrazia fuori della concezione del territorio e della regolamentazione delle sue risorse che passa per leggi dello stato. La rete illude che ci sia democrazia dove invece regala la vertigine dell’ anarchia.
Più si è spregiudicati conoscitori dei segreti del codice che limita l’ accesso ad alcune risorse in internet, più si considera un diritto rompere quei lucchetti. Alla base della cyber pirateria non necessariamente c’ è un bisogno reale di godere gratuitamente di un bene che altrimenti andrebbe acquistato, ma piuttosto il piacere della conquista di spazi e oggetti immateriali in nome di un net attivismo che si oppone a ogni forma di potere costituito.
In rete hanno successo gli slogan, molto più della complessità di un pensiero articolato. Meglio esprimesi per sintesi, e l’ imprecazione portata al rango di slogan e programma politico infatti risulta aggregante. Per questo nel web emergono le leadership conquistate sul campo da chi di quella rete conosca meglio di altri i meccanismi segreti e abbia attitudine e capacità di associare altre entità attorno a sé.
E’ però difficile distinguere un bravo professionista di marketing virale, magari un imprenditore che riesca a dare evidenza al suo brand, dal capo popolo che chiama a raccolta i suoi seguaci. In ogni caso le mobilitazioni in rete possono sicuramente trasferire massa umana anche nel mondo concreto. Howard Rheingold, Il teorico degli smart mobs, ha profondamente studiato la possibilità di azioni collettive che si auto organizzano e auto controllano attraverso un tam tam fatto di connessioni di vario tipo come internet o sms. Lo stesso guru della folla mossa in velocità però non nasconde il pericolo per cui affidare la rivolta a strumenti che lasciano tracce così indelebili di chi li usi, potrebbe significare anche consegnarsi al meccanismo di controllo più spietato , proprio da parte dello stesso sistema che si vorrebbe riformare.
Ora l’ attenzione più vivace è diretta al cosiddetto web 2.0, quello della socialità avanzata. Anche qui occorrerà intendersi sui termini. Sorvoliamo in questa sede sull’ ipervalutazione del blog come avanzata modalità di confronto delle idee e luogo di verità rispetto alle menzogne ( spesso innegabili) dei media tradizionali. Ci interessa invece fare un punto ulteriore su Second Life. Si sono versati fiumi di parole sull’ aspetto commerciale e sociale del mondo simulato. Meno si è parlato di cosa possa significare a livello individuale farne un’ esperienza immersiva prolungata e totale. Chi la frequenta con assiduità molto spesso non ne parla volentieri all’ esterno. Non perché faccia qualcosa di cui deve vergognarsi, ma perché è difficile rappresentare il desiderio di esperienza del fantasticare senza esser lambiti dall’ accusa di debolezza psichica o peggio ancora psicopatologia maniacale.
Chissà perché chi si immagina una seconda vita dovrebbe sentirsi in colpa? Pochi lo ammettono, ma sul più trendy degli esiti del web 2.0 pesa un anatema condiviso. Se ne parla come un parco giochi per umanità scombussolata, chi lo frequenta spesso è considerato più paziente psichiatrico che curioso, ma soprattutto c’ è una gara tra cronisti a descriverne infernali contaminazioni. Tutto ciò non fa una piega, sicuramente una parte anche consistente dei frequentatori del paradiso possibile dei Linden Lab preferisce di gran lunga svolazzare tra le isole simulate del metuniverso che guardarsi dietro alle spalle dove scorre implacabile la propria vita familiare, le proprie relazioni le angosce del quotidiano.
E’ noto che le massime aspirazioni di ogni mortale siano quelle di un corpo incorruttibile, di un dominio totale sulla materia, di un controllo consapevole dello spazio e del tempo non è cosa nuova. In Second Life molte di queste promesse sono corroborate dalle caratteristiche di quel mondo che sembra pensato da alcuni dèi che volevano soddisfare ogni desiderio umano. Si vola e ci si teletrasporta ovunque si voglia, quasi che l’ informatica potesse rappresentare una nuova maniera per chiamare le antiche pratiche magiche. Ciò che muove uomini e oggetti è il codice, poche righe di lettere e numeri capaci di dare espressione e capacità di relazione a masse di particelle primordiali, “primitives” in questo caso, che assemblate e modificate nella loro struttura base servono a costruire quel mondo. Il bello è che ognuno può costruire, il builder è un dio capace di creare, su di lui solo le regole assolute del mondo creato dal gran demiurgo Linden Lab.
Qui si realizzano in concreto, anche se solo come rappresentazione aspirazioni emergenti nella modernità, un corpo splendido e plasmabile a piacere, una sessualità a comando e sempre gloriosa e prepotente, una natura pulita che assomigli a un perenne villaggio vacanze dove sia possibile lo scatenamento quasi orgiastico di ogni voluttà.
Chiunque entri è subito colpito dal basso valore l’ immutabilità esteriore: gli organi sessuali, la pelle, l’aspetto, gli occhi i capelli e le labbra in vendita in immensi ipermercati della carne simulata. L’ emozione e la relazione sono legati alle “pose ball”, palline colorate che contengono il codice capace di far muovere l’ avatar nella riproduzione infaticabile di ogni attività umana, dal ballo, al gesticolare, al combattere all’ accoppiarsi in ogni possibile fantasiosa maniera.
Non è da escludere che Second Life vada interpretato come un percorso attraverso una realtà allucinata, ma composta da elementi fantastici che appartengono già all’ esperienza visionaria dell’ uomo contemporaneo.
Per di più esiste un pregiudizio profondo e comunemente condiviso che marchia ogni deriva dal reale come fosse la peggiore delle perversioni possibili. Il mito moderno di un’ esistenza proiettata in mondi diversi da quello che, per convenzione, viene chiamato reale non è oggigiorno considerato un valore. Esprimere il proprio diritto all’ immaginazione viene considerato un atto di leggerezza detestabile e non produttivo, a meno che si svolga la professione di autore televisivo. In questo caso però si richiede come deroga a poter immaginare liberamente di abbassarsi al minimo comun denominatore della fantasia che non generi ansia, non faccia desiderare altro che la merce di consumo, ma soprattutto che possa essere contenibile nell’ immaginario del maggior numero di persone possibili. I media tradizionali spesso parlano di Second Life usando i toni dell’ amplificazione, a volte anche fantasiosa, di comportamenti border line, per dimostrare come, ancora una volta, la macchina dell’ immaginario supporti il crimine dell’ immaginazione.
Per bollare come luogo di depravazione e delitto questa nuova rappresentazione di un possibile mondo parallelo si è scritto di avatar stuprati che sono dovuti ricorrere a cure psichiatriche, di terroristi che farebbero test di bombe atomiche o di riciclo di denaro destinato ad alimentare la guerra per integralismo islamico.
Ancora un caso in cui non si tollera che le macchine dell’ immaginario siano un sostegno reale per una parte cospicua dell’ umanità. Forse è quella parte di noi più fragile, ma proprio per questo bisognosa di confidare nell’aiuto delle protesi, non trovando solidi punti di appoggio per la relazione con altri uomini, ma soprattutto con se stessi. Fuori dei gusti di massa e delle mode correnti ogni deriva dell’ immaginario è paragonabile all’ eresia.
Una di queste è sicuramente l’ idea che possa esistere una relazione extra corporea, o peggio ancora supportata da protesi emotive. Oggi è indubbio che sia difficile entrare in relazione con il proprio prossimo unicamente attraverso le vie naturali. Si trovi una maniera più efficace dell’ sms per farci sentire vicini a un nostro simile fisicamente a latitudini diverse dalla nostra. Il messaggio breve inviato via telefono nasce come un gioco adolescenziale, sembrava che la sua forza dovesse essere l’immediatezza, tanto che molti hanno ironizzato sulla sintesi estrema dei 160 caratteri e sulla povertà espressiva delle sintesi gergali usate in quella modalità, ma a dispetto di questo è diventato il codice più immediato per trasmettere un’ emozione, lo strumento più sottile per colpire a fondo dove verbalità e scrittura non potranno arrivare. Quasi che la macchina abbia saputo dare una nascosta forza poetica a quel messaggio e abbia saputo amplificarne a dismisura il suo effetto.
Ancora una volta così l’ umano trova nella protei emozionale un efficace by pass che lo aiuti a trasportare flussi immaginifici attraverso gli strozzamenti per cui la modernità lo rende afasico. Questo aiuto si può avere da macchine costruite per mantenere vive le emozioni, quando nessun corpo sembra più capace di trovare spazi liberi per contenerle. Per dare forza al ricordo di momenti che ci appassionano abbiamo imparato a congelarli nella memoria digitale di una nostra protesi elettronica.
Il termine sembra astratto, ma è riferito a oggetti di comunissimo uso quotidiano come ad esempio un telefono cellulare. l’ unica che certifichi il valore delle nostre relazioni, in ragione di chiamate e messaggi ricevuti, ma ancor più una nuova estensione della possibilità di digitalizzare pesanti porzioni di esistenza. Alleggerire le esperienze per immagazzinarle e strapparle all’ oblio. La pesantezza del ricordo, la gravità dell’ consapevolezza che si accumula sulle nostre spalle fatalmente ci invecchiano, ma possiamo togliercene di dosso il peso dislocando tutto nel microchip di un cellulare.
Tra le possibili protesi relazionali o fluidifica tori di relazione senza dubbio Second Life rappresenta l’ evoluzione più potente. Quasi un esoscheletro interfacciato con ogni nostro ricettore sensoriale. Una macchina emotiva immersiva che ci permette di vedere, sentire e ricordare luoghi e persone come se appartenessero all’ esperienza del mondo concreto. La modalità dello spostamento nello spazio attraverso un immediato teletrasporto è la chiave più suggestiva di questo mondo simulato. Quasi fosse una macchina da seduzione collettiva per esseri umani. che si proiettano in avatar seguendo il sogno di essere incorporei e capaci di volare.
In realtà la contemporaneità è raccontata prevalentemente attraverso frames di un flusso video ininterrotto. Probabilmente qualcuno si immedesima a punto tale in questo meccanismo da pensare di poter costruire, con lo stesso sistema, lo splendido telefilm della propria esistenza.
Sembrerà un’ ipotesi azzardata, ma la protesi emotiva costruita con macchine che riproducono (cellulari, web cam, personal computer) e macchine che pubblicano e diffondono (strumenti semplificati di pubblicazione in rete di oggetti multimediali) può essere considerato anche un esaltatore di istinti creativi.
E’ così che quasi tutte le fasi dell’ esistenza di ogni umano civilizzato, sia intime che pubbliche, possono essere oggi assimilate a un genere di video-rappresentazione che ne garantisca memoria postuma. Un nuovo format nel complesso palinsesto del vivere quotidiano.
Tutti vorrebbero scambiare il proprio fardello di responsabilità con l’ universo in cui si diventa avatar. Il sogno di essere incorporei e capaci di volare ed espandersi, ma non solamente attraverso una forma scritta come nelle vetuste chat, piuttosto per vivere in una fase di letteratura autoprodotta. Un libro tridimensionale interattivo e condiviso dove si contempla se stessi costruendo la propria pagina personale nella storia di quel giovane mondo.
Ognuno è protagonista, a tutto tondo, del proprio quotidiano romanzo personale, ma allo stesso tempo personaggio comprimario, o di sfondo, nell’ intreccio di centinaia di altri romanzi che la comunità degli avatar scrive ogni giorno, semplicemente vivendo la propria esistenza parallela.
Non è in fondo un male insanabile se la contemporaneità ha deciso di affidare la sua epica alla narrazione di una macchina, complessa e imprevedibile, ma visceralmente connessa con la nostra più antica smania, quella di sopravvivere alla storia del mondo sovrascrivendola con la nostra.
7 commenti:
Ieri sera riflettevo con un avatar su come e perché spendere tempo in sl e mi sono ritrovata a scoprire, io nevrotica doverista straoberata di lavoro in rl, di essere entrata in sl per... perdere tempo. Mi sono raccontata a lungo che il mio era un interesse professionale, che in realtà ero alla ricerca di contenuti, che volevo cavarne qualcosa di costruttivo...
Ma in realtà ho scoperto il fascino dell'inutile, che è la vera cifra della letteratura, e in genere dell'arte. Gironzolo. chiacchero, mi provo vestiti e acconciature, ballo. Se mi va sento una conferenza o leggo un libro. Il mio tempo si dilata in un'eterna parentesi dove tutto si esalta e amplifica.
Il vero asso nella manica di SL è forse proprio questo: quello di farci recuperare la dimensione del tempo, facendocelo perdere.
Perdendolo, lo si riguadagna. Con gli interessi, aggiungo. Interessi che si capitalizzano in una dimensione temporale parallela, espandibile ed estensibile senza deformare la nostra bolla di universo quotidiano.
Così è, se vi pare.
Un’elucubrazione linguistica, concedetemela. In inglese ‘ to lose time’ vuol dire agire troppo piano, perdere tempo nel fare qualcosa, o rallentare un processo.
Mentre il nostro ‘perdere tempo’ si dice ‘to waste time’, sono quindi associati i concetti di spreco e di dissipazione. Il nostro perder tempo mi sembra più leggero, meno economicistico e quasi affettuoso, sia verso il tempo che verso di noi.
Il buon Benjamin Franklin, che aveva un commento da fare su tutto, pare dicesse: “If time be of all things the most precious, wasting time must be the greatest prodigality.” E noi lo accontentiamo con la nostra prodigalità. Così è.
Un’elucubrazione linguistica, concedetemela. In inglese ‘ to lose time’ vuol dire agire troppo piano, perdere tempo nel fare qualcosa, o rallentare un processo.
Mentre il nostro ‘perdere tempo’ si dice ‘to waste time’, sono quindi associati i concetti di spreco e di dissipazione. Il nostro perder tempo mi sembra più leggero, meno economicistico e quasi affettuoso, sia verso il tempo che verso di noi.
Il buon Benjamin Franklin, che aveva un commento da fare su tutto, pare dicesse: “If time be of all things the most precious, wasting time must be the greatest prodigality.” E noi lo accontentiamo con la nostra prodigalità. Così è.
Scusate ho evidentemente cliccato due volte per errore, non era un commento così fondamentale da meritare di essere reiterato!
Giusto, Susy, ma in pratica abbiamo detto la stessa cosa in modi differenti.
Il tempo a cui io mi riferivo è un tempo "to lose" and not "to waste". La differenza, insomma, tra il fast food di chi non ha tempo da ...perdere(?) e lo slow food di chi ogni tanto se la prende comoda anche se è incasinato con la vita.
E tanto per restare in tema di dissertazioni semantico-lessicali, al tuo inglese rispondo con il buon vecchio latino: i nostri antenati ben conoscevano la differenza tra otium e negotium; il primo termine era spesso usato in termini spregiativi, mentre il secondo era ricco di accezioni positive. Così era.
Errata-corrige: per un banale refuso ho invertito i termini. E' ovvio che il negotium era guardato con diffidenza, mentre l'otium era benevolmente considerato, ed aveva significati profondi e positivi.
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